IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Il  giudice  per  le  indagini  preliminari  vista  l'ordinanza  di
 rimessione  degli  atti  alla  Corte costituzionale, emessa in data 3
 luglio 1996,  nel  procedimento  penale  n.  1340/1995  g.i.p.  e  n.
 329/1995 p.m. a carico di Barbieri Patrizia.
   Ritenuto  che  per  mero disguido di impaginazione, la pag. 4 e' la
 riproduzione esatta della pag. 2;
     che occorre provvedere alla relativa correzione, riproponendo  il
 contenuto integrale dell'ordinanza compresa pag. 4.
                               P. Q. M.
   Dispone  che  nella ordinanza in data 3 luglio 1996 sia inserito il
 contenuto della pag. 4 per cui  l'ordinanza  integrale  risulta  come
 segue:
   "Il  pubblico ministero chiedeva il rinvio a giudizio dell'imputata
 indicata in epigrafe per i reati di cui all'art.  323,  primo  comma,
 c.p.
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'   premesso,   questo  giudice  ripropone  anche  nel  presente
 procedimento  (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal   combinato
 disposto  dagli  artt.   23 della legge 11 marzo 1953 n. 87 e 159 del
 c.p.) la questione gia' sollevata d'ufficio nel  procedimento  penale
 n.  255/1995  g.i.p.  e  n.  625/1994  p.m. in data 16 aprile 1996 in
 ordine  all'art.   323,   secondo   comma,   c.p.   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  323,  primo  comma  del  c.p.  perche'  in
 contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 97, primo  comma,  della
 Costituzione.
   Esaminando  innanzitutto il primo profilo, l'art. 323, primo comma,
 c.p. (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323, secondo comma
 c.p. che prevede secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente,
 una autonoma ipotesi di reato) non pare rispettare uno degli  aspetti
 del principio di legalita' sancito dall'art. 25, secondo comma, della
 Costituzione   e   cioe'  quello  della  tassativita'  e  sufficiente
 determinatezza della fattispecie  incriminatrice;  si  tratta  di  un
 aspetto  che,  come e' noto, tende a salvaguardare i cittadini contro
 eventuali abusi del potere giudiziario, a  restringere  i  poteri  di
 interpretazione del giudice.
   Non  si  intende  certo  mettere in discussione che nella redazione
 della  fattispecie   incriminatrice   il   legislatore   possa   fare
 riferimento ad elementi normativi e non solo descrittivi.
   Si  vuole  invece  evidenziare  che  l'art.  323  c.p.  incentra la
 condotta esclusivamente sull'abuso d'ufficio  rinviando  all'elemento
 soggettivo (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche',  come  autorevole  dottrina ha osservato, l'abuso e' una
 figura che non possiede, di per se stessa,  connotati  oggettivamente
 verificabili,  essendo  il risultato di un giudizio che si esprime su
 un comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha  ispirato;
 si  e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico, di
 una locuzione indeterminata, di un termine neutro, incolore.
   La norma si presta  allora  a  facili  manipolazioni  e  ad  essere
 applicata   a   qualsiasi   forma   di  vizio-irregolarita'  di  tipo
 amministrativo (che possono essere legati alle ragioni piu'  varie  e
 differenti   dalla   commissione   di   un   reato);  ne  conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice  fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe certamente
 riduttivo  prospettarsi  la  questione  guardando   all'epilogo   del
 processo)  ha  ancora  osservato  autorevole  dottrina che il giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notitia  criminis
 allorche'  e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una sommaria
 valutazione corrisponda, nella sua materialita'  ad  una  ipotesi  di
 reato.
   Orbene,  in  relazione all'art. 323 c.p., il carattere neutro della
 condotta, rende poco agevole la sussunzione nell'ambito  della  norma
 dei  comportamenti  piu' vari che possono essere sottoposti al vaglio
 del giudice.
   Ne consegue il fondato  rischio  che,  in  concreto,  l'inizio  del
 procedimento  possa  precedere l'accertamento di una notitia criminis
 ed essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi,  a
 verificare  se  nella  situazione  in esame ci sia effettivamente una
 tale notitia.
   Va poi evidenziato che,  come  emerge  dai  lavori  preparatori  il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare  i  comportamenti lesivi dei beni da tutelare nella p.a.;
 senonche' in tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro  che  la
 formulazione   attuale   dell'art.   323  c.p.  fu  dettata  anche  e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico  si
 anticipava  la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri di
 eccessiva indulgenza").
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se si considera che la norma viene ad assumere  un  ruolo  cardine  e
 centrale  nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la funzione
 sussidiaria dell'originario abuso innominato; ha inglobato (e  si  e'
 parlato  di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per distrazione,
 l'interesse privato in atti d'ufficio, l'abuso  innominato;  e  tutto
 cio' che la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad  avviso  di  questo  giudice,  inoltre, non si puo' ritenere che
 l'art. 323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza  del
 dolo  specifico;  si  tratta,  come  e'  noto, di uno degli argomenti
 centrali con il quale nella ormai datata sentenza n. 7/1965 la  Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione alla vecchia fattispecie di  abuso  innominato.  Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisice maggiore tassativita' attraverso il mero dolo specifico; in
 proposito   non    va    tascurato    che    nella    interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 suprema  Corte  ha  posto un freno a tale orientamento), la prova del
 dolo  specifico  viene  tratta  spesso  dalla   mera   illegittimita'
 dell'atto e del comportamento:  l'elemento soggettivo diviene un mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,  va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi   la
 questione   guardanto  solo  al  risultato  finale  del  procedimento
 (l'applicazione "discrezionale" della norma di abuso ai fini  di  una
 eventuale  condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre invece considerare quella che una  autorevole  dottrina  ha
 definito  una invadenza giudiziale "primaria", che si esprime, di per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In  questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua   insufficiente
 determinatezza   costituisce   una   facile   chiave   di  accesso  a
 disposizioni del giudice penale, per penetrare nel  territorio  della
 p.a.  ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art.  323  costituisce  allora  una  "spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amministratore piu' onesto.
   Tutto cio' compromette seriamente "il buon  andamento  della  p.a."
 voluto  dall'art.  97 della Costituzione: da un lato perche' consente
 con facilita' incursioni giudiziali in una  normativamente  riservata
 sfera  di  valutazione  discrezionale  della p.a.; dall'altro perche'
 genera  un  clima  non  favorevole  alla  serenita'  della  attivita'
 amministrativa  ed  una  situazione  quindi, come pure si e' detto in
 dottrina, che puo'  stimolare  l'immobilismo,  favorire  mancanza  di
 iniziativa, seminare preoccupazioni anche fra gli amministratori piu'
 onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione  amministrativa  in  modo  efficiente,  appropriato, adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente l'art. 323 c.p. pare minare proprio quel  bene  che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
   La   questione,   che   si   solleva  di  ufficio,  oltre  che  non
 manifestamente infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per  la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.